Qui non è Hollywood #9

“Nun s’è mai visto un super eroe co’ le scarpe de camoscio.”

 

Tabaccaia.
A Latina.

Ma vi sembra giusto?
Una che ha dedicato vent’anni e più di carriera a noi, generazioni di fine anni ottanta inizio novanta, indomiti divoratori di “Winner quando ancora aveva la confezione dorata” e di “Yo Yo Motta che ti davano pure il pelouche nella confezione”.
Una che ha costruito il suo impero partendo praticamente da zero, prima da sola poi con l’aiuto del suo inseparabile assistente, rendendoci dipendenti e spasmodicamente alla ricerca di un’altra dose del suo prodotto.
No, non sto parlando di Walter White. Parlo della mitica Sonia del canale regionale T.R.E. “la tivù per tutti e tre”, poi diventata Super Tre nella fase “Heisenberg” della conduttrice tanto cara ai giovincelli di Roma e dintorni che fummo.
Quante giornate passate a creare la conca a forma delle mie chiappe sul divano, mentre i vari Yattaman, Calendar Man, Nino e il mio amico Ninja mi ricordavano che la vita non era tutta Bim Bum Bam e Solletico, ma che c’era molto di più.
No, non sto avendo un’ischemia mentre scrivo, e sono sicuro che un buon 80% di voi sanno di cosa sto parlando. Per tutti gli altri, bè, posso dirvi che la “post T.R.E. generations sucks!”
Purtroppo, anche per questo grande impero, che ha vissuto il suo apice a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo, è giunto inesorabile il suo declino, chiudendo ufficialmente il primo Luglio 2013. Addio spot della Giraffa, che mostravi i giocattoli più fighi in circolazione, addio Toni della “sciroppi Pallini”, che sollazzavi Sonia con fresche bibite a base di glucosio. Addio anche a Birillo, il Jesse Pinkman della situazione che per anni ha portato avanti questo rapporto di amore impossibile con la conduttrice. Pare che ora lavori come distributore di biglietti Atac per il servizio metropolitano romano. Ma non è più lo stesso.
E Sonia? Giusto pochi giorni fa è uscita un’intervista dove raccontava il suo “day after”. Ora fa la tabaccaia a Latina, dove conduce una vita tranquilla e onesta. Non vi nascondo che un po’ mi ha fatto male, è stato come sentire chiudere definitivamente a chiave la porta che dava su un mondo passato quasi perfetto, senza che riuscisse a passare il testimone ad nuova generazione. E poi la povera Sonia, insomma. Almeno un oscar alla carriera se lo meritava! Alla fine l’hanno dato pure a Di Caprio!

In ogni caso, il palinsesto di questo fantastico canale era composto principalmente da cartoni animati giapponesi, il cui 70% era formato da quelli con robot e guerre tra cyborg et simili. Un genere molto vario, che in alcuni casi si prendeva decisamente poco sul serio (vedi Yattaman, i Predatori del Tempo o Calendar Man) e in altri invece mostrava tutte le sfaccettature più rigide e crudeli della cultura nipponica. Tra questi uno dei più famosi era sicuramente “Jeeg Robot D’Acciaio”, sul quale sono clamorosamente impreparato, poiché preferivo di gran lunga la lotta a suon di gag e mini robot che uscivano dalla pancia di altri robot in Yattaman. No, seriamente, non so dirvi nulla di nulla, ogni volta che iniziava cambiavo canale o andavo a stuccarmi mezzo pacco di Canestrelli. Eppure quasi vent’anni dopo sono qui per parlarvi di “Lo chiamavano Jeeg Robot“.

Il “me” di qualche mese fa l’avrebbe presa malissimo, non ho mai amato i film sui supereroi, tanto che la parola “Iron” nel mio associatore automatico mentale viene affiancata prima a “lady” e solo dopo a “man”, e quando si parla di “Hulk” penso sempre al centravanti brasiliano dello Zenit San Pietroburgo. Sarà perché tutti i film americani di supereroi sono dominati da odiose frasi ad effetto, duelli “sboroni” e situazioni impossibili, risolte in una maniera tanto impossibile quanto coatta dal protagonista di turno. Ok, sì, sono gusti, il mio limite è che non riesco ad apprezzare a pieno quel tipo di genere (tranne Daredevil la serie, quello sì, consigliatissimo).
Ma qualcosa è cambiato.
Quella che poteva sembrare una follia, combinare un tipico “superhero movie” americano, spettacolare e scenico con il più controverso e multisfaccettato cinema realista italiano, grazie a Gabriele Mainetti diventa realtà. A dir la verità c’era riuscito anche Gabriele Salvatores con il suo “Il ragazzo invisibile” del 2014 a farmi piacere il genere, con un’altra pellicola altrettanto originale ed apprezzabile, ma questa è (e forse sarà) un’altra storia.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” è invece la storia di Enzo Ceccotti (interpretato da Claudio Santamaria), un ladruncolo che vivacchia nella Roma moderna grazie a furtarelli e piccoli reati, rassegnandosi forse alla condizione di vita che lo relega a vivere in un fatiscente monolocale di Tor Bella Monaca, circondato solo da budini alla vaniglia e filmati porno. Ma un giorno, durante una sua fuga dalla polizia, nel tentativo di nascondersi nelle torbide acque del Tevere finisce in mezzo a dei barili di rifiuti radioattivi, rimanendone contaminato. Solo la mattina seguente scoprirà che ciò gli ha conferito dei poteri speciali, dotandolo di una forza sovrumana.
Un bagno nel Tevere che causa delle mutazioni. Già qui la spiegazione dei superpoteri del protagonista è più credibile del 90% dei supereroi americani!
La storia inizia a farsi interessante quando le vicende del protagonista Enzo si incrociano con quelle delle bande criminali, in lotta per il comando su Roma, e con quella della sua vicina di casa, la sensibile Alessia, così teneramente ossessionata dalla serie “Jeeg Robot D’Acciaio” da volerlo identificare in lui. E non vi faccio altri spoiler perché sarei davvero una brutta persona.

Quello di Gabriele Mainetti è un piccolo capolavoro ma soprattutto un grande miracolo, se pensiamo che si tratta dei primi passi del cinema italiano su un pianeta mai calcato. Nel suo “Lo chiamavano Jeeg Robot” c’è tutto: azione, comicità, drammaticità, divertimento. Sarà anche l’utilizzo del dialetto romano in alcuni frangenti a rendere certe sequenze ancora più esilaranti (sugli scudi il bravissimo Luca Marinelli nel ruolo de Lo Zingaro, una specie di caricatura romana di Joker) senza però far perdere credibilità alla vicenda, conferendo così uno stile tutto suo alla pellicola.

“Insomma, questi 5,50 euro del biglietto son stati spesi bene”. Me lo son detto più volte in sala.
“Certo se ci ficcassero qualche cameo o easter egg, da nerd quale sono sarei proprio contento”. Non ho fatto in tempo a pensarlo che… bam! Ecco apparire Salvatore Esposito (noto come Genny Savastano ai più) nei panni di un componente di un clan della camorra coinvolto nella vicenda. Credo di aver fatto un’espressione di questo tipo. Ci mancava solo che apparisse Bryan Cranston e penso che mi avrebbero portato via dal cinema in un sacco nero.

E la colonna sonora? La colonna sonora! Porca zozza!
Innanzitutto, vi anticipo che mi ha messo molto in difficoltà, poiché in rete non è facile da reperire, è presente solo quella prodotta appositamente per il film ma mancano alcune delle tracce che incontriamo durante la visione. Soundtrack di quelle ben studiate, che sanno trasportarti e soprenderti nei momenti giusti, alternando attimi dove manifesta la sua presenza in punta di piedi ad altri dove irrompe maestosamente come una ballerina di can can. Tanto per farvi capire quanto Mainetti ritenga importante una buona colonna sonora, vi riporto un breve estratto di una sua intervista:

“Per me la colonna sonora in un film è una presenza costante: c’è persino quando non avvertiamo gli strumenti emettere suono. Il silenzio non è altro che una pausa musicale, il direttore d’orchestra continua a battere il tempo e l’organico fa il suo ingresso solo quando l’immagine ne ha davvero bisogno”.

Ed in effetti è proprio così, la musica è sempre presente nell’arco delle due ore di film. Passiamo da pacate atmosfere di sottofondo come “Casa, budini e pornazzi” (seriamente si chiama così) a Lo Zingaro che si esibisce in una originalissima cover di “Un’emozione da poco” di Anna Oxa, a metà tra il Renato Zero e il Robert Smith dei The Cure. Tratteniamo il respiro in una ansiosa attesa con “Obitorio e canile” e ci facciamo scappare una risata quando Luca Marinelli (sempre lui!) esplode in un’altra cover con “Non sono una signora” di Loredana Bertè. “Daje regà, tutti insieme!”, aggiungo io.
E, come chicca finale, per tutti quelli che l’hanno amato, mentre scorrono i titoli di coda vi ritroverete ad ascoltare una versione molto spaghetti western dell’originale “Jeeg Robot“, cantata nientepopodimeno che da Claudio Santamaria!

Insomma…
Se avete amato Jeeg robot d’acciaio, andatelo a vedere!
Se non l’avete amato, andatelo a vedere!
Se non ve ne frega una ceppa di robot e supereroi, perché quando andavano in onda voi eravate ancora poco meno di una prospettiva futura in una sacca scrotale, andatelo a vedere comunque!

Corri ragazzo laggiù!
Daje

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By martinadabbondanza in Interviste



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