“Tu come ti sentiresti, dopo 364 giorni passati in questo buco freddo come il vuoto che c’è al posto del cuore di ogni ex, dopo un anno in cui ti senti dire da tutti “non esiste! tanto non esiste!“, dopo che hai visto piangere sui tuoi monitor di sorveglianza migliaia di bambini a cui viene detta la più grossa bugia da quando l’uomo inventò il cavallo? Mi chiedo, COME TI SENTIRESTI?!”
Non so se mi mette più a disagio il fatto che parli di ex fidanzate, o che me lo immagino davanti ad una parete di vecchie TV a sgranocchiare fiocchi di neve e spiare bambini.
Apprezzo la citazione di “Febbre da Cavallo”, quello sì.
Insomma, l’accoglienza non è delle migliori.
Certo, dopo un viaggio di quasi 5000 chilometri in autostop (grazie Le Cool), mi sarei aspettato almeno un vin brulé.
E invece mi trovo un Babbo Natale in canottiera, sudato come un personaggio di Trainspotting in astinenza, sommerso di carte e timbri ed una burocrazia che in confronto “Brazil” di Gilliam è l’immagine della semplificazione voluta da Renzi.
“Capisci in che situazione mi trovo?” mi grida fissandomi con gli occhi sgranati, “io devo gestire centinaia di questi elfi maledetti, che si nascondono ogni tre secondi e si rivolgono ai sindacati quando in questo periodo gli chiedo di fare straordinari. Ma tanto che gli frega, poi sono io ad imbarcarmi su quella carretta tutta la notte, a fare le corse come gli scemi!”.
Sono ufficialmente a disagio.
Quando mi è stato chiesto di parlare con Babbo Natale, Santa Claus, Santy, San Nicola, Papà Noel o “ciccione alcolizzato” come lo chiama la sua-quasi-ex Befana, ovviamente mi sono emozionato moltissimo. Ho ripensato a quando mi bussava sulla porta, quando da piccolo nella mia prima casa mangiavo distrattamente con un orecchio fisso all’esterno, pronto a scattare al primo *toc*toc*. Ho rivisto il mucchio di regali davanti a me e la sua assenza subito dietro. Sentivo lo scampanare fuori, e più di una volta sono sicuro di aver visto la luce della sua slitta sparire tra mille stelle.
Ho scoperto solo anni dopo che era mio padre, a bussare e poi scappare, senza nemmeno doversi travestire. In pratica come tutti gli altri giorni, solo che in quel caso mi lasciava dei regali.
Ora mi trovo davanti un uomo in evidente sovrappeso, nervoso, a rischio infarto e con conclamati problemi di gestione della rabbia.
Decido di provare a rompere il ghiaccio, presentandomi.
“Salve, signor.. Babbo?”
Maledizione.
“Eccone un altro”, sbotta. “Ma mica è colpa vostra eh. È che alla fine se per anni vi rincoglioniscono con il vestito rosso, la faccia paffuta e quel nome di merda, nemmeno vi viene il dubbio che io possa avere un altro nome o -follia!- una dannata vita oltre a questa cosa.”
“Tipo.. tipo Batman?”
“Sì, tipo Batman. Anche se io preferisco Ironman. O Gasparri. Perché su, quello è la versione normale di uno che poi si mette il mantello e pensando di poter volare si schianta dal settimo piano. Comunque, scusami, è che sono un poco nervoso. Sai, il periodo. Comunque mi chiamo John. John Doe.”
All’improvviso mi ritrovo davanti un uomo di mezz’età, nonostante sia indefinita, con la faccia stanca ed un nome anonimo.
“Quindi, per capire, questo non è il tuo lavoro? Non te ne stai il resto dell’anno seduto alla scrivania, a leggere lettere e prendere appunti? Io da piccolo son venuto, con mia madre e quello che poi fingeva d’esser te, e mi ti ricordo lì, paziente, nel tuo studio, a farti fare foto su foto. Io tra l’altro ero..”
“..terrorizzato. Me lo ricordo. Avevi un maglione super natalizio, che ora sembreresti ridicolo perché hipster, ma soprattutto perché ti starebbe piccolissimo. Eri con i tuoi ed un coppia di amici con il figlio.. Francesco!”
Annuisco basito.
Anni di certezze, di illuminazioni in macchina di mamma di ritorno dalle elementari in cui realizzo la farsa, lo show. Le conferme di mia madre, e poi un’intera vita in cui cresci con l’adulta consapevolezza che Babbo Natale non esiste.
E invece c’è.
È qui, davanti a me, che continua a raccontare quella giornata di almeno vent’anni fa: il suo villaggio a Rovaniemi, il Circolo Polare Artico poco più in là, le renne, il camper, le bacche, le camminate, l’odore di legna ovunque.
Io continuo a fissarlo e ad annuire.
Incantato, quasi ipnotizzato.
“..ed eccoti qui. Jacopo. Fammi vedere il pollice..” dice prendendomi la mano destra, la torce piano verso l’esterno e sfiora la cicatrice. Quella che mi sono fatto chiudendo
“il Camper delle Micromachines. Come no. Che pianto ti sei fatto, e quanto mi è dispiaciuto, credimi! Però era divertente eh?”
Ride.
Ride di gusto, al punto che una serie di colpi di tosse lo scuote per qualche secondo. Si mette la mano davanti alla bocca, fa un paio di respiri profondi e si siede piano sulla sedia.
Dà due colpi col palmo su una pila di fogli lì accanto, invitandomi a sedermi.
“Sai, una volta era più facile. E non è un discorso da vecchio eh. Nemmeno mi ricordo più quanti anni ho, quanto è passato da quando.. va beh, non voglio divagare. Fatto sta che io non invecchio. Non più, almeno. E per una serie di cose che il tuo cervello impedito non può sopportare e quindi non ti dirò, mi ritrovo a dover portare il peso di far felici i bambini. E guarda che non è facile, non più appunto. Siamo sei miliardi di anime, nemmeno so più quanti marmocchi ci sono in giro, ed una notte non basta nemmeno più per innamorarsi, a questo mondo. Figurati per consegnare milioni di pacchi. Prima si era di meno, c’erano meno pretese, meno cose, oggetti. Eravamo davvero artiginani, lavoravamo i materiali, costruivamo. Adesso siamo -sono- assemblatori. Se ti affacci di là -ma non farlo altrimenti devo ucciderti e darti in pasto alle renne- sembra di stare in una fabbrica della Apple: un nastro, centinaia di elfi con la mascherina ed i guanti in lattice, chini a saldare circuiti e ritagliare scocche col laser. E mettici anche che questo non è il nostro lavoro. Lo dobbiamo fare, ed in un certo periodo di tempo. Il resto dell’anno torniamo alle nostre vite. Io quest’anno ero un idraulico del Montana. Altri venti giorni e chissà dove sarà riassegnato.”
Guarda per un attimo il vuoto, oltre me, oltre la parete in legno che ci separa da un mondo che mi dipinge come spacciato.
Poi piega la testa sul petto, al punto che la barba non sa più dove poggiarsi e ritorna su, a creare una nuvola dove fa sparire la faccia.
“E poi basta, con questa cosa della bontà a Natale. Io, che dovrei esserne baluardo, non ne posso più. Io sono buono sempre. Sempre, capisci? Come idraulico, muratore, biologo.. pensa che una volta son stato un avvocato, di quelli grossi. Dovevi vederli, quando sorridevo e regalavo ferie a tutti: da squali a delfini. Una meraviglia. Ed in quei casi lo faccio perché io sono sempre stato così, di natura: buono e disponibile. Ci vuole così poco! Solo che poi io sono costretto a venire qui e per due mesi rompermi la schiena tra documenti per le dogane, piani di volo di tutto il mondo per non rischiare la tragedia e continui cambi di idea sul regalo di ‘sti bambocci viziati che state continuando a generare.”
“Beh io, almeno per il momento, non ho colpe eh” dico dopo talmente tanto che devo schiarirmi la gola. Sembra capirlo, e da sotto un mucchio di carta regalo stracciata tira fuori una bottiglia di tequila, e subito dopo due bicchierini dal cassetto.
Mi guarda, e sorride.
“Secondo te come farei a resistere in canottiera, con questo freddo? Ok la ciccia, ma non è comunque abbastanza!”, e di nuovo risata e di nuovo tosse, mentre versa troppa tequila che straborda bagnando il legno e le dita di questo uomo che sembra non aver più niente da perdere.
Mi passa un bicchiere, che provvede subito a varare con il suo con un colpo secco, deciso, che fa volare altro liquore ovunque. Manda giù senza pensarci, posa il bicchiere che riempie subito e che altrettanto velocemente si svuota in corpo.
“Sai che c’è? Sembra brutto, come discorso, ma io potrei lavorare molto meno, e con me gli elfi, se tutti fossero anche solo un poco più buoni del solito. Pensaci un attimo: se tutti, da domani, facessero davvero sedere la vecchietta rompicazzo sul bus, o se sopportassero il pianto di un bimbo con le coliche invece di sbraitare contro i genitori impotenti, qualcosa cambierebbe, fidati. E questo è l’essere passivamente buoni. Immagine se tutti invece sorridessero, chiedessero più spesso se c’è bisogno di aiuto o anche solo ringraziassero tutte le volte, il mondo cambierebbe nel giro di pochi mesi. Ci sarebbe più condivisione, più interazione, meno bisogno di orologi da polso che ti dicono quante volte tua moglie ti ha tradito con l’amante mentre fai jogging per rimorchiarti la tipa coi leggins e le Adidas nuove. Anche io potrei lavorare meglio, più attentamente, con più calma e passione. Io non ci capisco più nulla, del mondo che avete creato. Avete l’ansia addosso per tutto, ogni giorno. Vedo bambini di sei, sette anni sbattuti tra tablet e lezioni di Pilates e corsi di design d’interni, ed intanto la vita e l’infanzia ed i giochi passano via. Così, in un attimo.”
Giurerei di vedere una lacrima scendere da quegli occhi azzurri come il ghiaccio fresco di un iceberg.
“Se scrivi che ho pianto.. lo sai no? Machete, sangue, denti di renna.. scherzo, imbecille!”
Si alza di scatto, come mai mi sarei aspettato da uno della sua mole.
“Vieni, ho una cosa per te.”
Lo seguo in un piccolo stanzino, proprio dietro la sua scrivania.
Sopra una serie di scaffali a griglia Ikea, ci sono una serie di buste postali, di quelle marroni col pluriball dentro. Al contrario di tutto il resto dello studio, queste sono ordinate in modo quasi maniacale: sul bordo di ogni ripiano ci sono una serie di etichette, ognuna a distinguere un gruppo di buste grazie ad una serie di numeri che per me non significano nulla, mentre capisco che per lui sono un preciso sistema di archiviazione. Fa scorrere l’indice sui bordi, creando un suono come di foglie al vento. Poi si ferma deciso su una, insieme al pollice la pizzica dal bordo e la estrae.
Sopra c’è il mio nome, scritto con un’impeccabile calligrafia in corsivo.
“Buon Me! Oh Oh Oh!”
Risata.
Tosse.
Improvvisamente la sua voce si fa di nuovo dura.
“Fuori dai coglioni ora. Ho una scadenza da rispettare.”
Mi gira le spalle e così come l’ho trovato lo lascio, tra scartoffie, colpi di tosse e, se non sbaglio, anche un paio di bestemmie.
Mi metto il cappotto e lo guardo mentre chiudo la porta, tornando nel freddo di quel bosco bianco di neve.
Mentre m’incammino verso la strada, ripenso alle sue parole, a quanto deve essere difficile gestire una situazione del genere. Mi chiedo cosa lo abbia costretto a vivere per sempre la gioia di una festa che di felice ha ogni anno sempre meno.
Forse parlava di semplice gentilezza. Magari la bontà è ancora troppo. Però penso che tenere una porta aperta ad una ragazza, scambiare due parole col vecchietto alla fermata, farsi raccontare qualche storia dai ragazzi neri che vendono libri fuori dalla Feltrinelli, insomma penso che compiere un qualunque atto gentile, delicato, altruista sia una cosa che tutti vorremmo sia fatta a noi, ma che potremmo anche cominciare a fare agli altri.
Vedi mai che Babbo ha ragione. Che è contagiosa. E che magari lavora di meno, rischiando un infarto che comunque non lo ucciderebbe.
Mentre penso a queste cose mi rendo conto di aver perso un poco l’orientamento. La strada dovrebbe essere.. di là.. no.
Un attimo di panico mi assale, con quel bianco accecante ed un silenzio stappa timpani.
Faccio un respiro profondo, chiudo gli occhi per qualche secondo e li riapro guardandomi piano intorno.
Rifletto.
Poi, come d’istinto, mi indico da solo quella che penso sia la strada da prendere. E mi accorgo di avere ancora la busta in mano.
La apro con un po’ di fatica, con ‘sti guanti. Alla fine mi sfilo il destro con i denti e strappo uno dei bordi. Guardo dentro, e vedo solo un foglio piegato in due.
Lo estraggo piano, e con la condensa del mio fiato che è quasi neve, lo apro.
Dentro, la stessa calligrafia con cui sulla busta è scritto il mio nome.
La sua scrittura.
Quella di Babbo Natale che, con quelle semplici parole, mi fa capire che ad esser più buoni dobbiamo cominciare ad essere noi, e non aspettare che lo sia lui per tutti.
Quattro parole.
“Ti sei perso, coglione!”